Stray: la recensione

Solo, sperduto e lontano dalla sua famiglia, un gatto randagio deve venire a capo di un antico mistero per fuggire da una città a lungo dimenticata.

Stray nasce come il primo progetto di BlueTwelve Studio, un piccolo team indipendente francese formato da ex sviluppatori veterani con una grande passione per i giochi sperimentali. Annunciato per la prima volta nel 2020 durante un evento dedicato a PlayStation 5, il gioco catturò immediatamente l’attenzione del pubblico grazie a un trailer che mostrava un mondo cyberpunk decadente visto attraverso gli occhi di un gatto randagio. Questo semplice, ma brillante concept lo ha distinto subito dalle tipiche produzioni AAA, orientate spesso a meccaniche complesse e trame spettacolari. Il team ha scelto un approccio minimalista ma evocativo, concentrandosi su un’ambientazione dettagliata e sull’esperienza immersiva del giocatore. Con il supporto di Annapurna Interactive, noto publisher di giochi indie di qualità come Journey e Outer Wilds, Stray è stato promosso come un titolo che esalta creatività e storytelling emotivo, attirando l’interesse sia di appassionati del genere che di chi cerca esperienze nuove. Pur rimanendo lontano dalle risorse e dalle pressioni delle grandi produzioni, Stray sfrutta il suo budget indipendente per creare un mondo affascinante, caratterizzato da enigmi ambientali, un gameplay narrativo e una prospettiva originale. Una dichiarazione d’amore per l’arte videoludica lontana dalle logiche di mercato più commerciali. Dopo un bel po’ di attesa, anche la pazienza dei possessori di Nintendo Switch viene premiata e l’intrigante titolo gattesco è oggi disponibile anche per la console ibrida della casa di Kyoto. Vediamo più da vicino…

Il world building di Stray è uno dei suoi tratti distintivi, capace di immergere il giocatore in un universo cyberpunk unico, intriso di mistero e malinconia. La storia si svolge in una città futuristica chiusa, dove il genere umano sembra scomparso, lasciando dietro di sé un ecosistema urbano dominato da robot antropomorfi e strane creature. Gli androidi, che svolgono il ruolo di abitanti principali, mostrano tratti sorprendentemente umani: vivono, si intrattengono, e persino ricordano con nostalgia gli umani che un tempo popolavano il mondo. Questa società artificiale, però, è in decadimento, segnata dall’assenza del sole, da tecnologie ormai vetuste e da una minaccia biologica rappresentata dai Zurks, piccoli parassiti capaci di divorare sia materiale organico che meccanico. In questo panorama decadente e privo di speranza, si inserisce il protagonista più insolito possibile: un gatto randagio. Senza nome e apparentemente privo di legami, il felino si trova intrappolato nella città dopo una caduta accidentale dalle alture. Da semplice vagabondo, il gatto diventa presto il motore narrativo della storia. La sua natura zoomorfa lo rende un perfetto esploratore urbano: agile, curioso e in grado di infilarsi in spazi angusti che sarebbero inaccessibili per qualsiasi altro personaggio. Le sue abilità sono cruciali non solo per risolvere enigmi e superare ostacoli, ma anche per scoprire frammenti della storia del mondo in cui si trova. Attraverso piccoli dettagli disseminati nell’ambiente – come graffiti, vecchi terminali e registrazioni – il giocatore viene guidato in un processo di scoperta graduale e immersiva. L’incontro con B-12, un piccolo drone dotato di memoria e personalità, aggiunge un ulteriore livello di profondità. Questa insolita alleanza tra macchina e animale permette al gatto di interagire con i robot, decifrare testi e raccogliere informazioni, costruendo pian piano un quadro più chiaro degli eventi passati e delle cause del declino della città. La scelta di un protagonista animale non è solo un vezzo narrativo, ma una trovata che amplifica il senso di alienazione e meraviglia che pervade l’intero gioco. Senza dialoghi espliciti o monologhi interiori, l’interazione con l’ambiente e i suoi abitanti è mediata da gesti e comportamenti naturali: un salto, un miagolio, una carezza data a un robot. È proprio questa prospettiva unica e “bassa”, unita alla capacità di osservare il mondo con curiosità animale, che rende il viaggio in Stray un’esperienza tanto intima quanto universale.

L’aspetto ludico di Stray ruota attorno a una combinazione di walking simulator, fasi platform e momenti di risoluzione di enigmi ambientali, tutti reinterpretati attraverso le abilità naturali del suo protagonista felino. Il cuore del gameplay è rappresentato dall’esplorazione: il gatto si muove agilmente tra i vicoli, i tetti e gli interni di una città cyberpunk densamente dettagliata, utilizzando salti precisi e movimenti sinuosi per raggiungere luoghi altrimenti inaccessibili. La sensazione di libertà, pur non assoluta per via di un level design lineare, è amplificata dall’abilità di interagire con l’ambiente in modo creativo, riflettendo comportamenti tipici dei gatti, come grattare porte, rovesciare oggetti o infilarsi in spazi strettissimi. Le fasi platform sono semplifici, forse fin troppo, con i salti gestiti automaticamente quando si punta verso un’area raggiungibile. Questo sistema elimina la possibilità di errori legati alla precisione, favorendo un ritmo di gioco fluido e accessibile, anche se conseguentemente meno intrigante. Questa scelta, infatti, potrebbe risultare troppo guidata per chi cerca una sfida tecnica più marcata. In compenso, il focus si sposta sull’esplorazione meditativa e sulla risoluzione di enigmi ambientali, dove il giocatore deve spesso sfruttare l’agilità e la curiosità del protagonista per trovare percorsi alternativi, attivare meccanismi o distrarre i nemici. Ad esempio, può spostare oggetti per sbloccare passaggi o attirare gli Zurks in trappole per superarli. Un aspetto peculiare di Stray è l’assenza quasi totale di combattimenti diretti. Questa scelta, se da un lato potrebbe deludere chi cerca azione adrenalinica, dall’altro è perfettamente in linea con l’identità del gioco. Il gatto è un sopravvissuto, non un eroe che sconfigge i nemici a colpi di forza, e nei momenti di tensione il tutto è gestito attraverso meccaniche di fuga o brevi fasi stealth, dove l’obiettivo è evitare il pericolo piuttosto che affrontarlo. In un punto specifico della storia, il drone B-12 permette di eliminare temporaneamente i nemici tramite un raggio di luce ultravioletta, ma questa abilità è limitata, rafforzando il senso di vulnerabilità che pervade (per fortuna, ci verrebbe da dire) l’intera esperienza. Nel complesso, il ritmo di gioco alterna fasi di esplorazione rilassata a momenti più intensi, mantenendo una varietà che evita la monotonia. Stray non punta a stupire con meccaniche rivoluzionarie, ma riesce a coinvolgere grazie a un’interazione autentica con il mondo e a un gameplay che valorizza il punto di vista unico del protagonista. La scelta di rinunciare a dinamiche tradizionali come i combattimenti, sebbene divisiva, rappresenta un’ulteriore dimostrazione del coraggio del team nel privilegiare coerenza narrativa e immersività.

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