Grazie all’opera dello studio giapponese Skeleton Crew, in Olija vestiremo i panni (sdruciti) di Faraday, un naufrago sbarcato suo malgrado in terre straniere e a lui ostili, dove sopravvivenza e speranza si intrecciano diventando una cosa sola. Armati soltanto del nostro spirito irreprensibile, di un’innata resilienza e del nostro fidato e mistico arpione, dovremo esplorare gli ambienti circostanti e cercare di arrivare sani e salvi al traguardo: per salpare verso nuove terre, rinnovando la promessa di continuare a vivere, sempre e comunque, nonostante tutto e tutti.
Questo l’incipit narrativo del gioco, che ci introduce in atmosfere e toni piuttosto malinconici e desolati sin dalle prime battute, facendoci entrare in un contesto capace di definire con forza l’esperienza che ci aspetterà nelle successive ore di intrattenimento. Sì perché Olija è un gioco, ma è soprattutto un viaggio: un viaggio lungo ambienti desolanti e desolati, sospinto dalla necessità e finito in tragedia, ma senza per questo perdere la speranza degli uomini di una volta, capaci di fronteggiare le avversità con la resilienza e la curiosità di esploratori nel verso senso della parola. Uomini pronti a tutto pur di non fermarsi, di continuare a mettere un piede davanti all’altro, consapevoli del ruolo al contempo piccolo e significativo della nostra specie, nel mondo. Olija potrebbe sostanzialmente essere definito l’equivalente interattivo di un romanzo di formazione, dove Faraday, protagonista delle vicenda, saprà farsi avatar silente, ma carismatico al tempo stesso. Naufrago in balia degli eventi, tanto quanto motore delle vicende.
Le gesta del protagonista vengono narrate da poche righe di testi e dialoghi, nonché da alcune cut-scene semplici e minimaliste, ma di grande impatto evocativo. Il gioco, infatti, è senza dubbio gestito e coordinato da un’ottima direzione artistica, sia per quanto riguarda gli accostamenti di colore che per quello che concerne la “regia” di ambienti e movimenti di camera. La pixel art scelta di per sé non è né originale né particolarmente creativa, ma l’uso che viene fatto di questa tecnica di rappresentazione appare invece convincente e coinvolgente. Così come la decisione di fare riferimento a un mare magnum di leggende e trasmissioni orali, di vaghi rimandi culturali non specificamente dettagliati, riuscendo nell’arduo compito di costruire un universo diegetico allo stesso tempo familiare e diverso: spunti orientaleggianti si mescolano ad astmosfere anglosassoni, dove oscuri yo-kai si incontrano con l’aura salmastra di Moby Dick. Un insieme bizzarro, eppur riuscito, che saprà catturarvi per un’emozionante avventura ricca di suggestioni, ma anche di azione.