Q: Parliamo un attimo del progetto specifico: come siete riusciti ad accaparrarvi un titolo legato a una licenza così rinomata a livello mondiale?
A: Qui torniamo un po’ al discorso di prima: il punto più importante è la loro capacità di concepire l’attività come business, creandosi una reputazione attraverso diversi progetti di collaborazione. Piano piano uno studio di sviluppo deve dimostrare le proprie capacità, non soltanto tecniche, ma anche organizzative, di PR, di autopromozione in modo da testimoniare di avere la capacità di gestire il business, comprendendo il mercato in modo profondo e professionale. Dopo l’ottimo esordio con Remothered hanno incontrato qualche difficoltà qualitativa nella produzione del seguito diretto, ma anziché chiudersi in loro stessi hanno iniziato a collaborare su una serie di produzioni altrui che hanno garantito loro la possibilità di espandere la rete di contatti, confermando le competenze interne presso altre software house, rilanciandosi anche con nuove IP interne variando anche generi, da horror a action, promuovendosi come realtà di programmazione capace di operare in diversi contesti. Comprovando di poter gestire la parte artistica, quanto quella commerciale (anche in termini di costi di sviluppo competitivi, un potenziale punto di forza che però dovrebbe essere ulteriormente evidenziato già in fase di pitch): su questa base poi bisogna far tanta fatica, dimostrando grande passione e convinzione nel voler fare un progetto importante, soprattutto quando ci si interfaccia con i proprietari e i produttori di licenze già affermate, comprensibilmente viste dagli stessi come elementi di valore, da esaltare ancor di più in cessione di diritti.
Q: Giocandoci è apparso evidente quanto il titolo si ispiri, quasi tributandolo, a Alien Isolation: anche in quel caso ci si muoveva a cavallo tra horror e stealth, tramite l’interpretazione interattiva di una famosissima licenza cinematografica. Confermi la contiguità concettuale e contestuale? Potresti sottolineare altri aspetti di similitudine?
A: Assolutamente sì, l’ispirazione non è solo intuibile, ma sostanzialmente esplicita. Prima di tutto perché Alien Isolation è un titolo di enorme successo, tanto di critica quanto commerciale. Quel progetto è stato incredibile, nel dimostrare come titoli videoludici tratti da IP o licenze esistenti possano davvero alzare l’asticella qualitativa, sotto tutti i punti di vista, a partire dall’elemento di game design. Il titolo fa tanta paura, e per un horror questo è un valore imprescindibile. I punti di contatto tra le due operazioni sono tanti ed evidenti, come fai presente tu: la fuga, il nascondersi e lo stealth in particolare ne rappresentano il fulcro, unitamente a un continuo alternarsi di situazioni 1 vs 1 (tra la creatura e il giocatore), davvero caratterizzanti. Splendido punto di partenza, che per altro evidenzia un altro aspetto in cui il nostro panorama potrebbe e dovrebbe maturare: imparare e non reinventare la ruota non significa mortificare lo slancio creativo, tutt’altro. In inglese si dice “sitting on the shoulders of giants” per trasmettere il concetto che è possibile produrre qualcosa di fantastico proprio perché qualcuno, prima di te, ha creato qualcosa da cui partire, per crescere ulteriormente traguardando nuovi orizzonti. Noi con Storminds lo abbiamo fatto: abbiamo studiato tanto, abbiamo studiato tanto di Alien Isolation, comprese le differenze tra quel prodotto e il nostro, evidenziandone anche le unicità per capire cosa e dove potesse e dovesse cambiare. La ricerca è spesso in grado di offrirti una marcia in più proprio per le fasi iniziali del tuo lavoro. Per altro cercando non di copiare, ma di comprendere, e non necessariamente o quantomeno non solo da prodotti di grande successo. Per poi ovviamente aggiungere, soprattutto in termini di unicità e differenziazione, come è stato fatto con l’elemento dell’asma in A Quiet Place: The Road Ahead, un elemento davvero apprezzato poi dai nostri giocatori. Un elemento su cui abbiamo voluto spingere molto per uscire dal paradigma tipico dei giochi horror di procedere in “crouch” (camminare accucciati è una strategia dominante all’interno del genere), ma per farlo dovevamo trovare ovviamente un escamotage che rendesse il tutto gestibile dal giocatore in maniera attiva, ma intrigante ed interessante, restando però all’interno delle dinamiche e delle atmosfere del gioco stesso. In questo ci è venuto in grande soccorso lo studio e la conoscenza profonda della IP, visto quanto i protagonisti dei vari progetti (cinematografici) di A Quiet Place sono sempre portatori di difetti o problematiche fisiche piuttosto evidenti. Ed ecco che dalla commistione tra IP, genere, dogmi e innovazione nasce l’elemento distintivo forse più riuscito dell’opera. L’asma può da un lato portarti a generare rumore, dall’altro è causato da condizioni ambientali che nel mondo narrativo di riferimento sono piuttosto comuni: l’insieme di questi fattori il tutto si traduce in nuove dinamiche di gioco intriganti per il fruitore.
Q: C’è un aspetto particolare, in termini di gestione del progetto, che vorresti sottolineare, magari nel mettere assieme tanti stakeholder diversi, tra il team, il publisher, il licenziante?
A: La gestione di un progetto così è senza dubbio complessa. Da un lato c’è l’IP, che deve essere rispettata seguendo tutta una serie di regole legate al mondo creativo di riferimento, sia verso il proprietario che verso i fan dei prodotti da cui il tutto si è generato. Senza contare come l’origine di questa specifica licenza sia cinematografica, per cui proviene da un mondo che a sua volta ha tutta una serie di regole, di base diverse da quelle del videogioco, spingendo anche verso una necessità di riadattamento in termini di medium comunicativo. In più, interfacciandosi con Hollywood e tutto quel contesto, sorgono svariate sfide anche di stampo prettamente logistico, tra impegni, fuso orario, agende da far combaciare. Sempre senza dimenticare i problemi più intrinseci a qualsiasi produzione videoludica, che consistono in particolare nel saper equilibrare la visione e le capacità del team, trovando il giusto bilanciamento tra le tensione interne ai diversi team, che spingono ciascuno verso il proprio ideale (artistico, interattivo, tecnico e via discorrendo). Trovare la quadra tra fattibilità ed entusiasmo non è semplice, ma è uno dei compiti più intriganti per un direttore creativo.