L’industria dei videogame è fatta di filoni, veri e propri stilemi che, a partire da un capostipite di genere, riescono poi a imprimersi così a fondo e in maniera così definitiva nell’immaginario collettivo degli appassionati da settare nuovi standard, legati tanto alle aspettative prima, quanto alla celebrazione poi. Capostipiti che, dettando la direzione in maniera quasi involontaria, grazie a un’aura carismatica che nasce in realtà proprio dalla volontà opposta rispetto a quella del concetto di massa e cioè l’affermazione personale di una visione identitaria del mezzo di intrattenimento, assurgono al ruolo di icone, rappresentanti per antonomasia dei valori da loro stessi proposti. Parliamo di Mario Kart per l’ambito dei racing arcade, di Street Fighter per quanto concerne i picchiaduro, di Super Mario per il platform, di Uncharted per gli action cinematografici, di Metroid e Castlevania per i….metroidvania, ma in epoca recente forse più di ogni altro è stata lo sforzo creativo di FromSoftware a generare questo tipo di fenomeno, capace di dar vita al neologismo di Souls–like.
Sappiamo tutti di cosa stiamo parlando: produzioni (forse tecnicamente non all’avanguardia) sorrette tanto da una direzione artistica truce e greve, quanto da scelte di gameplay altrettanto punitive, chiaramente indirizzato a una fetta di mercato di giocatori appassionati, capaci di dedicarsi per ore e ore all’apprendimento di un sistema di combattimento profondo, dove ogni più piccola animazione conta e dove il contesto (narrativo e interattivo) finisce per avere peso e conseguenze assolutamente rilevanti per il proseguo della progressione di gioco. Un solco tracciato ai tempi della PlayStation 3 grazie anche al finanziamento diretto da parte di Sony (con Demon’s Souls) salvo poi continuare in maniera più indipendente ed allargata con l’erede spirituale (che ha visto ben tre episodi sotto l’etichetta di Dark Souls), per poi rimbalzare ancora verso i lidi del marchio giapponese con un altro progetto ludicamente adeso alle stesse dinamiche di genere seppur riletto sotto una chiave interpretativa artisticamente differente (con Bloodborne). Il tutto fino ad arrivare all’attuale “next–gen” (ossimoro linguistico possibile solo grazie al fanatismo di noi videogiocatori incalliti!), che ha visto tanto il remake (tecnicamente davvero apprezzabile) proprio di Demon’s Souls in esclusiva PlayStation 5, quanto l’approdo del filone Souls–like nella terra promessa dell’open world, con Elden Ring (la cui attesissima espansione Shadow of the Erdtree è per altro in arrivo tra poco). Un successo per certi versi persino inaspettato, non tanto a livello di critica quanto in termini di ricezione entusiasta da parte di un mercato di massa capace di dimostrare quanto ampie, oltre che “vocal“, possano essere certe “minoranze”, che in fondo in fondo tanto di nicchia non sono…un successo per altro capace anche di generare epigoni a più non posso, soprattutto all’interno del panorama indie.
Ecco così nascere una pletora di produzioni ispirate alle atmosfere, alle tematiche o alle dinamiche ludiche di questi grandi giochi, spesso peccando di superficialità nel replicarne solo in maniera ingenua alcuni aspetti, peccando nell’amalgama dei vari elementi che li compongono per ottenere un tutto che è più della somma delle parti, vuoi per mancanza di esperienza, vuoi di budget, vuoi di talento. Ma è anche vero che altrettante opere, anche molto meno ambiziose, sono state in grado al contrario di proporre qualcosa di interessante, offrendo talvolta anche interessanti spunti di differenziazione. Tra questi il primo Morbid (The Seven Acolytes) che, con il suo approccio 2D isometrico ha saputo mettere tra le mani di tanti giocatori (compresi i possessori di Nintendo Switch) un titolo dotato di personalità, nella sua concezione organica e materica delle uccisioni nemiche, dal ritmo frenetico e dalla sfida intrigante. Una serie che oggi compie un balzo forte, coraggioso, anche se forse eccessivo, come andremo a vedere: lanciarsi appieno verso la tridimensionalità di una resa visiva pienamente poligonale. Seguito diretto del predecessore, The Lord of Ire inviterà i giocatori a rischiare la follia avventurandosi in un inferno ripugnante da una prospettiva tutta nuova, più moderna ma, visti i limiti tecnici, anche meno convincente da tanti punti di vista. Non da quello legato alla lore, cioè alla narrativa e al world bulding costruito dentro al gioco, entrambi correttamente tarati verso il pubblico di riferimento di queste opere: parliamo del ritorno dell’eroico protagonista, ancora una volta pronto a combattere contro creature orribili in un ambiente oscuro e contorto da dolore e sofferenza. Il vostro obiettivo sarà quello di massacrare creature ostili e tremendamente organiche, utilizzando una serie di armi feroci e di attacchi finalizzati a sventrare tutto quello che si parerà sul vostro cammino di epuratori. La struttura ludica propone le dinamiche di un hack&slash capace di mettere alla prova la sopportazione di scenari e squartamenti raccapriccianti, ma anche di sconfitte continue, vista l’ineluttabilità delle vostre morti, cercando di sopravvivere recuperando armi uniche, governabili anche attraverso specifiche rune in grado di aumentarne il tasso di mortalità.