El Shaddai: Ascension of the Metatron HD Remaster: la recensione

Un viaggio onirico ritorna dal passato con tutta la sua carica di simbolico misticismo, per ricordarci quanto i videogiochi possano offrire, al di là degli odierni parametri di giudizio

C’era una volta un’epoca in cui lo scenario delle produzioni videoludiche differiva e non di poco rispetto a quello attuale, sotto diversi punti di vista. La generazione di PlayStation3 e Xbox360, ad esempio, non si è solo contrapposta violentemente alla strategia del Nintendo Wii, andando a creare una vera e propria spaccatura nelle politiche aziendali dei maggiori player del settore grazie alla visione “out of the box” del compianto Satoru Iwata, ma ha anche visto il salto tecnologia nell’era dell’alta definizione (tanto che l’accoppiata degli hardware made in Sony e Microsoft è spesso stata definita come “HD Twins“, visto anche l’ambiente di programmazione parzialmente sovrapposto) andando ad aprire nuove possibilità di fruizione ma anche nuove sfide in termini di programmazione. In particolare verso i team meno ampi e organizzati, nonché meno facoltosi, iniziando quel fenomeno di diaspora dei prodotti “AA” che invece spopolavano fino all’epoca precedente: una pletora di progetti non di prima fascia che, tanto su Playstation quanto su GameCube e Xbox, sapevano arricchire la lineup della libreria software di qualunque console tra una grande uscita e l’altra, alimentando la passione di milioni di fruitori nell’attesa del “blockbuster” successivo. Un Odama e un Doshin the Giant per ogni Super Mario, insomma, lungo uno schema dove quantità e qualità non necessariamente andavano sempre a braccetto, ma in cui la varietà regnava sovrana agli occhi del giocatore, grazie a un trattamento espositivo senza dubbio più equo e democratico, visto come gli scaffali dei negozi e le pagine delle riviste specializzate riuscissero a donare la stessa dignità al Tenchu PlayStation 2, posto accanto a un Resident Evil Code: Veronica per Dreamcast. Con l’aumento dei costi e dei tempi di produzione, una concorrenza sempre più agguerrita tanto nei risultati grafici a schermo quanto nei budget di marketing spesi per differenziare nettamente la percezione dei prodotti più importanti da tutti gli altri, i tempi iniziarono a farsi difficile per molti, visto quanto il panorama indie fosse soltanto ai suoi primordiali albori (l’auto-promozione via social media, le possibilità di auto-pubblicazione sugli store online e lo sfruttamento massivo ed intensivo degli asset middleware erano ancora soltanto accennati, seppur pronti a esplodere di lì a poco). Ed è per questo che, guardandosi indietro, si riscoprono con fascino a stupore alcune gemme, incastonate nel tempo sospeso della memoria, della nostalgia, ma anche dell’apprezzamento artistico.

Nella coraggiosa opera del piccolo e talentuoso team responsabile del prodotto che andiamo oggi a recensire nel suo porting per Switch, ci troviamo immersi in un mondo di mistico simbolismo, ricchissimo di continui richiami religiosi e intriso tanto di stile quanto di significato implicito, se non addirittura ermetico. Sì, perché già dal titolo il progetto di El Shaddai Ascension of the Metatron ci prende per mano e ci trascina in un viaggio che definire onirico è poco, vista la forza creativa che lo accompagna in maniera astratta ma sempre fortemente ancorata a valori artistici e ludici non banali. Il titolo infatti attinge a piene mani dell’ebraismo, per identificare il nome con cui viene indicato il Dio Supremo, in un crogiolo di continui rimandi alla creazione, all’esistenza stessa, al significato di vita e di immortalità continuo e costante che vi accompagnerà lungo tutto l’arco primario dell’avventura principale del gioco: un titolo che proporrà diverse scene animate, inframmezzate con un buon ritmo narrativo alle tante e particolari fasi di gioco interattivo, capaci di confondervi senza dubbio, ma anche di appassionarvi. Fortemente ermetico, ma mai straniante fino al punto di far scemare la vostra attenzione, al contrario il canovaccio intriso di simbologia ideato dai programmatori saprà dapprima incuriosirvi e poi conquistare appieno il vostro interesse, senza più lasciarvi andare: a patto che siate disposti ad abbandonandovi a un racconto astratto e trascendente, come pochi se ne vedono nel panorama videoludico, soprattutto attuale (al di fuori di una ristretta cerchia di coraggiose produzioni indipendenti).

Un racconto che per qualche aspetto ricorda l’approccio estremamente minimalista di un Journey, ma anche l’astratta geometria di un REZ, senza perdere le poetica ambientazioni gargantuesche di uno Shadow of the Colossus, in un intreccio complesso e non banale di elementi, richiami e continui rimandi di uno dei suoi elementi cardine: la comunicazione visiva. Sì perché è evidente come il significato, nascosto o meno, del messaggio insito nella realizzazione di El Shaddai sia trasmesso in gran parte proprio da ogni singola scelta operata in termini di regia, inquadrature, design, forme, colori in un caleidoscopio di immagini pensate per mettere a schermo un world building profondo evidentemente soggiacente al costrutto narrativo e ludico-interattivo che ha poi preso corpo nel prodotto finale. Ecco così che se inizialmente vi troverete quasi soverchiati dal continuo e apparentemente contraddittorio insieme di circostanze, ambientazioni e situazioni a schermo, piano piano il canovaccio tanto testuale quanto visivo comincerà a prendere corpo in maniera sempre più organica, coerente e convincente, trascinandovi al centro di una vicenda mistica, di cui potrete essere i veri protagonisti: il gioco, infatti, pur guardando ad altri titoli del passato altrettanto capaci di comunicazione implicita, mostra una propria personalità ben delineata, ricca di carisma e identità. El Shaddai è forse simile a qualcosa di giocato ai tempi del Dreamcast, ma è uguale soltanto a sé stesso.

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