Una delle peculiarità delle console Nintendo è sempre stata quella di prendere segmenti videoludici inaspettati o addirittura denigrati da una certa fetta di consumatori (soprattutto occidentali), cresciuti a pane e Metal Gear Solid (perché in realtà a pane e Metal Gear [senza Solid] son cresciuti proprio i fan più attempati della casa di Kyoto), indirizzati verso un intrattenimento meno serioso e più allargato in termini di età e genere, e porli al centro della propria lineup, allargando il bacino di fruizione oltre i limiti e i confini altrimenti imposti da approcci più settoriali del medium di comunicazione che tanto amiamo. Una caratteristica che fa parte tanto della cultura giapponese, di cui Nintendo è stata capace nei decenni di ergersi a emblema planetario, grazie a opere impregnate di valori in realtà universali, quali il puro divertimento e l’accessibilità, quanto del DNA di Miyamoto & soci (forse anche per l’origine puramente giocattolaia dell’azienda, in fondo), e che negli anni ha saputo esprimere vere e proprie icone, di questo pensiero intrinsecamente legato alla produzione del loro variegato e variopinto portafoglio prodotti. Tra tutti, quello più contraddittorio in termini di ricezione tra il mercato di massa e circuiti forumistici di presunti appassionati è quello dei “party game“, titoli fortemente incentrati sull’esperienza multiplayer, prevalentemente in locale, mutuando diversi aspetti ludici da giochi in scatola, giochi di società e via discorrendo: un segmento che vede Mario Party come pilastro, ma che nel corso del tempo e grazie al successo dell’operazione Nintendo ha visto anche alcune terze parti cimentarsi in progetti similari, a volte sfruttando IP già affermate, altre volte introducendo invece contesti diegetici del tutto inediti. Basti pensare ad esempio a Itadaki Street (tradotto per l’occidente in Fortune Street), pubblicato da Square-Enix sia come prodotto originale che, altre volte, mutuando nomi, personaggi e ambientazioni tanto da Final Fantasy quanto, soprattutto, da Dragon Quest. Ma non solo: c’è un’altra serie che, ingiustamente, è meno conosciuta in occidente ma che si affaccia sul mondo “family“, con un twist del tutto particolare: stiamo parlando di Dokapon Kingdom.
Un po’ come per Ring Fit, ma decisamente prima del titolo sportivo di Nintendo, il connubio tra Idea Factory e Sting ha portato alla commistione di genere tra le classiche dinamiche da party game e quelle da…gioco di ruolo. La serie è arrivata da noi a partire dal 2008, facendo credere agli acquirenti di aver comprato un “gioco da tavolo virtuale” col quale divertirsi assieme alla famiglia, salvo poi scoprirsi corrotti dall’irrefrenabile desiderio di vincere, sconfiggendo senza pietà tutti gli altri concorrenti: effetti collaterali di un titolo che nasconde sotto le spoglie innocenti di party game una forte vena competitiva. Mutuando diversi elementi dal fantasioso mondo dei giochi di ruolo, inoltre, rispetto a un Mario Party qualsiasi, Dokapon Kingdom Connect presenta come piatto forte una modalità Storia piuttosto curiosa e interessante: il regno è sotto assedio e il suo sovrano annuncia la necessità di trovare un erede al trono, che possa prendersi carico delle difficoltà della nazione. Per farlo, dovrà essere trovata la persona degna di sposare la figlia del re e, in un twist narrativo inaspettato, il migliore verrà scelto non tra i più coraggiosi o eroici profili del popolo o della nobiltà, bensì tra i più ricchi: chi, infatti, alla fine dell’avventura avrà racimolato il tesoro più prezioso, potrà convolare a nozze e conquistare così il trono del regno. Il bizzarro incipit ha come effetto più interessante, non soltanto quello di gettare le basi per la sfida tra i diversi giocatori, ma anche quella di introdurre le diverse scene animate che caratterizzano l’opera, con intermezzi piuttosto divertenti e comici tra il re e la principessa, a ogni chiusura di capitolo (cioè di tabellone). La trama è ovviamente piuttosto semplice e, soprattutto, leggera, ma la possibilità di affrontare diversi livelli, legati alle varie plance di gioco pensate dagli sviluppatori, con protagonisti a loro volta personalizzabili tramite la scelta di classi o “job“: un aspetto anch’esso non certo profondo come nelle maggiori opere di Square-Enix, ma calcolando anche come il livello di costumizzazione aumenti al progredire dell’avventura, proprio come se si stesse salendo di livello grazie all’esperienza accumulata, contribuiscono a quella sensazione di crossover di generi che definisce il franchise qui preso in esame e che, ancora oggi, appare come un unicum piuttosto originale. Soprattutto perché le classi più avanzate saranno realmente portatrici di aspetti piuttosto strategici, avendo caratteristiche e abilità in grado di cambiare notevolmente le carte in tavola di una partita, ovviamente facendo arrabbiare tantissimo tutti gli altri partecipanti!
Oltre alla modalità Storia, i giocatori possono affrontare l’esperienza anche attraverso la modalità normale, che consente di scegliere diversi parametri di gioco, settando la durata dell’avventura, per poi decretare vincitore chi, al termine del periodo di combattimento selezionato, si ritroverà con il gruzzolo maggiore. Questa è una modalità eccellente per coloro che vogliono solo un rapido tour attraverso tutti i tabelloni presenti, solitamente incredibilmente vasti, anche se ovviamente per una vera e propria sfida anche narrativa con gli amici la modalità Storia resta quella principale. In aggiunta, c’è anche una modalità Battle Royal in cui sarà possibile scegliere tra tre diversi obiettivi: Town Race, Kill Race o Shopping Race. Ogni modalità ha specifiche richieste di completamento e vince chi è in grado di soddisfare quei requisiti per primo: potendo selezionare obiettivi differenti dal semplice accumulo di denaro, ovviamene ne risulta un aumento non indifferente della varietà di gioco complessiva, senza dubbio benvenuta. Il tutto senza poi considerare la modalità online, vera novità di questa versione per Switch, che in fondo è la riproposizione dell’ultimo episodio sviluppato per PlayStation 2 e Nintendo Wii, con l’aggiunta proprio della possibilità di giocare contro altri avversari, attraverso la rete (oltre a un’ovvia spolveratina alla risoluzione grafica, ovviamente). Per chi ha accesso al web, probabilmente questa modalità potrebbe risultare quella più divertente tra tutte, trasportando il prodotto in un certo contesto di modernità: ciascun giocatore può iniziare una partite, come se fosse un “master”, facendo partecipare poi altri tre avversari. Calcolando la lunghezza di una partita media sul tabellone-mondo di gioco, gli sviluppatori hanno anche optato per la possibilità di far sostituire un partecipante in carne e ossa da un bot governato dalla CPU, anche a partita in corso, così da non far perdere i progressi fatti a tutti gli altri partecipanti. Ovviamente, questa caratteristica è benvenuta, anche se la mancata partecipazione di giocatori reali toglie quel confronto diretto tra persone che, in un titolo comunque di società, compartecipano del divertimento complessivo. Questo aspetto, unito anche alla limitatezza della struttura di comunicazione online purtroppo endemica di Switch, indeboliscono la pregnanza del gioco online per Dokapon Kingdom, che a conti fatti resta più fruibile e divertente in versione multiplayer da salotto.