Alfred Hitchcock – Vertigo: la recensione

La vertigine è voglia di volare, o paura di cadere?

Ci sono prodotti dell’uomo che, indipendentemente dalla forma fisica che assumono o, in questo, dal mezzo di comunicazione tramite cui scelgono di incarnasi, riescono a trascendere i limiti dell’incomunicabilità tra la psiche autoriale e il gran pubblico di massa, arrivando dritti come un fuso a centrare l’obiettivo. Un obiettivo fatto del desiderio di espressione di un’idea, di una visione, di un racconto, di uno scorcio, di uno stile, di un’emozione o dell’insieme di tutte queste cose. Questi prodotti assumono spesso la definizione di opere d’arte, ma sarebbe una descrizione imprecisa, seppur non necessariamente errata, laddove il termine più corretto sarebbe invece capolavori. Punti massimi di espressione tecnica, contenutistica e stilistica di un determinato genere di produzioni dell’uomo, capaci anche di trasmettere valori (si diversa natura, non intesi soltanto nell’accezione etica del termine tutt’altro) che da specifici riescono a farsi generali. Tra questi, molti sono appartenuti all’ambito della cinematografia, quantomeno nel periodo più autoriale ed artistico di questa industria, e tra i titoli più aderenti a questa definizione troviamo sicuramente Vertigo, capolavoro (appunto) del compianto Alfred Hitchcock.

Opera massima, entrata di diritto nel novero delle migliori pellicole thriller di sempre, ha ispirato diversi prodotti successivi, travalicando anche i limiti non solo di genere, ma anche di medium. Ultimo esempio, il videogioco qui recensito: liberamente ispirato alla famosa pellicola di cui presenta orgogliosamente il marchio originale in copertina, ma variando in maniera netta tutta una serie di elementi del racconto, si avventura in un percorso irto di pericoli e ostacoli più o meno nascosti. Il più ovvio è quello di una adesione pedissequa a quanto già messo su schermo, soprattutto considerando come la struttura ludica scelta porti a confronti più o meno diretti: trattasi infatti di un’avventura a metà tra quella testuale e quella punta e clicca, dove molto viene fruito in maniera passiva dal giocatore, quasi stesse ancora osservando il lavoro di una macchina da presa, solo occasionalmente chiamato a una vera e propria interazione. L’altro è quello al contrario di osare, e allontanarsi in realtà molto dalla sinossi del film, con una sceneggiatura sostanzialmente nuova, dove personaggi e situazioni richiamano solo alla lontana quanto già esperito tramite la cinepresa di Hitchcock, reinterpretando svariate tematiche tipiche del grande autore, rilette in chiave moderna, sia per ambientazione che per contesto situazionale. A metà strada, quindi, tra l’imitazione e l’omaggio, tra un sistema di comunicazione e un altro, tra l’interattività di un videogioco e la passività di una pellicola, Vertigo prova a intrattenere il suo pubblico, con un successo quantomeno parziale.

A livello di struttura ludica, l’opera del team ricalca in qualche modo i titoli resi famosi dalla Quantic Dreams, come Heavy Rain o Detroit: Become Human: una sorta di avventura che in altri tempi avremmo definito testuale, che ai dialoghi scritti sostituisce una sorta di recitazione animata, con elementi di punta e clicca ambientali, infarciti a tratti di esplorazioni in ambienti tridimensionali. Un mix tra film e racconto, tra cinematografia e letteratura, arricchito quantomeno sporadicamente da elementi di interattività prettamente videoludica, seppur ridotta ai suoi elementi più sintetici ed essenziali. Seguendo le scene animate, in-game e con il motore di gioco, che il regista-programmatore ha deciso di creare e di presentare ai nostri occhi, saremo chiamati in alcuni frangenti, strettamente scriptati e predeterminati dal game designer, a muovere una levetta o premere un tasto per far compiere una specifica azione al nostro avatar; in alcuni casi saranno veri e propri QTE (quick time event), dove avremo un arco di tempo limitato entro cui compiere suddetta azione-interazione, in altri casi invece potremo prendercela più comoda, gestendo almeno in parte il ritmo dell’avventura e del dipanarsi del canovaccio. In aggiunta, lungo alcune sessioni di gioco saremo invece spinti, durante contesti più statici e fortemente improntati al dialogo tra due protagonisti della vicenda, a selezionare le frasi con le quali portare avanti il botta e risposta, lungo una sorta di albero narrativo nel quale poter optare per una soluzione del flusso, piuttosto che un’altra. Una cornice interattiva quindi piuttosto limitata e senza dubbio limitante, ma allo stesso tempo intrinseca al genere di titolo qui proposto, che però oltre ad alcuni vincoli generici presenta anche determinati difetti specifici.

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